Prefazione di Romano Luperini alla
raccolta di versi
“Apache Tear” 1
In
un articolo di Daniela Ripetti del 1979, uscito sulla terza pagina del
“Messaggero”il 14 luglio, trovo questa domanda, che ci porta già nel cuore di Apache Tear: “Com’è possibile sentire il respiro del corpo della parola quando il nostro corpo,
il nostro respiro e tutte le varie espressioni della nostra fisicità sono
controriformisticamente fustigate da oscuri cilici?
La
tensione ad una fusione anche per via alchemica, col mondo, a gettare in un
crogiuolo solo scrittura, corporalità, sensitività dell’io e delle cose,
fisicità della natura, grazie a talismani, incontri con antiche leggende,
sapienze ancestrali, percorre quasi tutte queste pagine. Ci
si sente, forte, una formazione legata alla tematica del desiderio e della
corporalità che fu tipica degli anni settanta e in cui si conciliarono talora,
come qui, radicalità politica e pulsioni libertarie provenienti dalla cultura
francese (Deleuze e Guattari, soprattutto), in bilico fra irrazionalismo
simbolistico e anarchismo. (E di tale ispirazione politica resta qualche
traccia potente in una delle prime poesie della raccolta, infatti del 1981: “Pace
non è,/ rispetto... pace/ è incrinare l’ordine/ dello stesso ordinare”).
L’autrice di questi versi è come attratta
da un punto di fuga vertiginoso – una sorta di punto zero – da un’“intersezione
di sogno/ e di tempo”, in cui i suoi sensi possano rinascere in
un’immedesimazione di paniche correspondances e di cui la stessa
scrittura dovrebbe essere immediata manifestazione: “Così
io mi sento/ nel cangiare dei formicolii e dei blocchi del corpo/ tra cielo e
oceano/ in un’increspatura leggera del foglio…”.
Ma
“tornare/ nuova / al mondo” è programma utopico: l’ardore quasi mistico con cui
viene perseguito si scontra con un limite, ritornante anche stilisticamente,
nell’uso dei puntolini di sospensione, la cui frequenza è proporzionale allo
scacco dell’impresa. E
il limite finisce per riguardare anche questa implosione in versi che qualche
volta stentano a distendersi, come inceppati da un’ineffabilità stessa
dell’esperienza tentata o auspicata. D’altronde per Daniela, non potrebbe
essere che così, giacché per lei “Dischiudere il senso / non è un problema di
senso”, ma di recupero di una sensitività e di una corporalità frustrata dalla
civiltà contemporanea.
Dietro
ci si sente forse, l’eco della poesia americana (Ginsberg), certamente l’impeto
“orfico” di Campana (d’altronde indirettamente citato più volte; si veda, per
esempio, la poesia Canone enigmatico che rinvia implicitamente a La Chimera).
Il limite viene varcato in due momenti
topici: quando quell’attrazione di cui
dicevo diventa la stessa che i significanti esercitano nei propri stessi
confronti calamitandosi a vicenda,
rimandandosi i medesimi suoni e così scorrendo lungo l’asse metonimico
delle assonanze e delle allitterazioni verso quel “buco vuoto/ senza sfondo” di
cui si parla nella poesia “Vorrei se potesse...”(e che sopra ho chiamato ‘punto
zero’), e quando si bloccano di colpo privilegiando l’interruzione fornita dal
senso, la chiusura semantica. Nel primo caso i sensi imprevisti producono esiti surreali (talora accoppiati a un'istanza di verginità primitiva); nel secondo un'improvvisa e trepida chiarezza lirica, più tradizionale, ma in sé perfettamente compiuta.
Come accade nella poesia "Riarsa di vita..." che è un bell'esempio di fusione dei vari aspetti della ricerca di Daniela: lo slittamento dei significati ("norma... forma... foglia... adombra") non tende qui all'infinito, ma si condensa alla fine, in una clausula ferma e perfetta: "al dileguar della norma/ non resta né forma/ né anima viva, ma un/ mobile lieve frusciare/ di foglia che culla ed/ adombra la mia dipartita..."
Terre di
Giovin Donna
Ritornerò
sulla pagina
e
finalmente m’inoltrerò
in queste
disavventure amate
e
lasciate, come superbe signore.
Troppo
grande e antico il tedio
per contenere amorucci,
troppo
grande e discendente la notte
per
fingere infatuazioni…
Eviterò
d’innamorarmi di qualcosa
che sia
me,
dovrò
dunque impensierirmi
ancora un
po’ con le cose…
Andatevene
amorucci, gastronomie
allergiche
simbiosi metaboliche
arrotondamenti
di carni e bocche
tutte tese a morire per ire…
Dischiudere
il senso,
non è un
problema di senso,
e forse
non contiene malizie,
per
tradirsi.
PAX SUPERNA
Marcia
della prudenza 1981
Niente… rotto.
Nessun libero
da vita
questo vociare dinanzi al
gelo – pace in eterno
come tutte le morti
pace… Nessun libero
da morte… nessun respiro
d’infinità…
Pace, che sia, è un’incrinatura
muta nella sagoma quieta
di una sera invernale.
Pace non è,
rispetto...
PACE…
è incrinare l’ordine
dello stesso ordinare.
*
Danzò una striscia azzurra
nel diramarsi dei platani
un azzurro trascorrere tra cartilagini
bianche... brevi albori invernali
dischiusi e già rinchiusi
tra figurine intrecciate da linfe
fratte e stanche.
Non riordinerò questo universo
né spererò nell’azzurro
(ma scenderò nell’azzurro)
(ma scenderò nell’azzurro)
celeste ch’è rifratto
dal frangersi dei rami
smagliatura d’intreccio,
o albore già smagliato...
colore senza fondo
più bello
dell’umano.
*
Riarsa di vita
in sideranemiche attese
riarsa d’attesa
al dileguar della norma
non resta né forma
né anima viva, ma un
mobile lieve frusciare
di foglia che culla e
adombra la mia dipartita,
segnata da tempo
da fogli di via.
SMEMORAR D’INFANZIA
………………………
quando
viva ero nel taglio del loglio
e
incantavo papaveri al canto
del Lago
e al
rospo
impaurito dicevo:
“nessuna
paura”, che anch’io
lo
temevo, il rospo, ma non
l’inoltrarmi
più oltre nel bosco…
e i Passi, i passi
che le
nere scale traevano
dal buio
più fondo
o gli
occhi
d’occhiuto
torbido incontro
io non
temevo
la
falce, il fondo del bosco
quando
viva ero
nel
taglio…