domenica 23 febbraio 2020

APACHE TEAR (I parte) - Prefazione di Romano Luperini


 Prefazione di Romano Luperini alla raccolta di versi 
  “Apache Tear1



In un articolo di Daniela Ripetti del 1979, uscito sulla terza pagina del “Messaggero”il 14 luglio, trovo questa domanda, che ci porta già nel cuore di Apache Tear: “Com’è possibile sentire il respiro del corpo della parola quando il nostro corpo, il nostro respiro e tutte le varie espressioni della nostra fisicità sono controriformisticamente fustigate da oscuri cilici?

La tensione ad una fusione anche per via alchemica, col mondo, a gettare in un crogiuolo solo scrittura, corporalità, sensitività dell’io e delle cose, fisicità della natura, grazie a talismani, incontri con antiche leggende, sapienze ancestrali, percorre quasi tutte queste pagine. Ci si sente, forte, una formazione legata alla tematica del desiderio e della corporalità che fu tipica degli anni settanta e in cui si conciliarono talora, come qui, radicalità politica e pulsioni libertarie provenienti dalla cultura francese (Deleuze e Guattari, soprattutto), in bilico fra irrazionalismo simbolistico e anarchismo. (E di tale ispirazione politica resta qualche traccia potente in una delle prime poesie della raccolta, infatti del 1981: “Pace non è,/ rispetto... pace/ è incrinare l’ordine/ dello stesso ordinare”).

L’autrice di questi versi è come attratta da un punto di fuga vertiginoso – una sorta di punto zero – da un’“intersezione di sogno/ e di tempo”, in cui i suoi sensi possano rinascere in un’immedesimazione di paniche correspondances e di cui la stessa scrittura dovrebbe essere immediata manifestazione: “Così io mi sento/ nel cangiare dei formicolii e dei blocchi del corpo/ tra cielo e oceano/ in un’increspatura leggera del foglio…”.

Ma “tornare/ nuova / al mondo” è programma utopico: l’ardore quasi mistico con cui viene perseguito si scontra con un limite, ritornante anche stilisticamente, nell’uso dei puntolini di sospensione, la cui frequenza è proporzionale allo scacco dell’impresa. E il limite finisce per riguardare anche questa implosione in versi che qualche volta stentano a distendersi, come inceppati da un’ineffabilità stessa dell’esperienza tentata o auspicata. D’altronde per Daniela, non potrebbe essere che così, giacché per lei “Dischiudere il senso / non è un problema di senso”, ma di recupero di una sensitività e di una corporalità frustrata dalla civiltà contemporanea.

Dietro ci si sente forse, l’eco della poesia americana (Ginsberg), certamente l’impeto “orfico” di Campana (d’altronde indirettamente citato più volte; si veda, per esempio, la poesia Canone enigmatico che rinvia implicitamente a La Chimera). 

Il limite viene varcato in due momenti topici:  quando quell’attrazione di cui dicevo diventa la stessa che i significanti esercitano nei propri stessi confronti calamitandosi a vicenda,  rimandandosi i medesimi suoni e così scorrendo lungo l’asse metonimico delle assonanze e delle allitterazioni verso quel “buco vuoto/ senza sfondo” di cui si parla nella poesia “Vorrei se potesse...”(e che sopra ho chiamato ‘punto zero’), e quando si bloccano di colpo privilegiando l’interruzione fornita dal senso, la chiusura semantica. Nel primo caso i sensi imprevisti producono esiti surreali (talora accoppiati a un'istanza di verginità primitiva); nel secondo un'improvvisa e trepida chiarezza lirica, più tradizionale, ma in sé perfettamente compiuta. 
Come accade nella poesia "Riarsa di vita..." che è un bell'esempio di fusione dei vari aspetti della ricerca di Daniela: lo slittamento dei significati ("norma... forma... foglia... adombra") non tende qui all'infinito, ma si condensa alla fine, in una clausula ferma e perfetta: "al dileguar della norma/ non resta né forma/ né anima viva, ma un/ mobile lieve frusciare/ di foglia che culla ed/ adombra la mia dipartita..."





Terre di Giovin Donna

Ritornerò sulla pagina
e finalmente m’inoltrerò
in queste disavventure amate
e lasciate, come superbe signore.
Troppo grande e antico il tedio
 per contenere amorucci,
troppo grande e discendente la notte
per fingere infatuazioni…
Eviterò d’innamorarmi di qualcosa
che sia me,
dovrò dunque impensierirmi
ancora un po’ con le cose…
Andatevene amorucci, gastronomie
allergiche simbiosi metaboliche
arrotondamenti di carni
e bocche tutte tese a morire per ire…
Dischiudere il senso,
non è un problema di senso,
e forse non contiene malizie,
                                    per tradirsi.




PAX SUPERNA
Marcia della prudenza 1981

Niente… rotto.
Nessun libero
da vita
questo vociare dinanzi al
gelo – pace in eterno
come tutte le morti
pace… Nessun libero
da morte… nessun respiro
d’infinità…

Pace, che sia, è un’incrinatura
muta nella sagoma quieta
di una sera invernale.
Pace non è,
rispetto...
PACE…
è incrinare l’ordine
dello stesso ordinare.




*
Danzò una striscia azzurra
nel diramarsi dei platani
un azzurro trascorrere tra cartilagini
bianche... brevi albori invernali
dischiusi e già rinchiusi
tra figurine intrecciate da linfe
fratte e stanche.
Non riordinerò questo universo
né spererò nell’azzurro
 (ma scenderò nell’azzurro)
celeste ch’è rifratto
dal frangersi dei rami
smagliatura d’intreccio,
o albore già smagliato...
colore senza fondo
più bello
dell’umano.





*

Riarsa di vita

in sideranemiche attese

riarsa d’attesa

al dileguar della norma

non resta né forma

né anima viva, ma un

mobile lieve frusciare

di foglia che culla ed

adombra la mia dipartita,

segnata da tempo

da fogli di via.






SMEMORAR D’INFANZIA

………………………

quando viva ero nel taglio del loglio
e incantavo papaveri al canto
del Lago e al
rospo impaurito dicevo:
“nessuna paura”, che anch’io
lo temevo, il rospo, ma non
l’inoltrarmi più oltre nel bosco…
e i Passi, i passi
che le nere scale traevano
dal buio più fondo
o gli occhi
d’occhiuto torbido incontro
io non temevo
la falce, il fondo del bosco
quando viva ero
nel taglio…