Estratti di prefazioni, recensioni e note nel tempo ad
alcuni scritti in versi e in prosa di Daniela Ripetti Pacchini
Daniela
Ripetti (cognome completo: Ripetti Pacchini) è
scrittrice e poetessa. In passato ha svolto attività di
psicologa-psicoterapeuta e ha collaborato a diversi quotidiani e riviste
italiane. Si è occupata inoltre di teatro e ha lavorato in Italia e in Francia con
Carmelo Bene.
Durante la sua formazione
universitaria e la specializzazione ha vissuto prevalentemente a Roma fino agli
inizi degli anni Ottanta quando, a causa di una grave patologia, è tornata a
Pisa, sua città natale.
Lettera-prefazione
di Alberto Moravia (1982)
“Cara Daniela, nelle tue poesie è visibile l’amabile
baldanza toscana che non conosce limiti di tempo e di spazio ed è subito
moderna (o se preferisci, come si dice oggi postmoderna). Appartieni, insomma,
a una cultura sempre capace di sorprendere l’attimo che fugge, anche se la
tradizione è all’angolo della strada nel momento stesso che viene respinta e
negata. Questa è la tua fortuna; ma non è forse anche la fortuna una qualità di
cui alla fine possiamo rivendicare il merito?
Tu alterni
l’idea di una poesia della rivolta ‘civile’, a quella di una poesia per te
sola, magari a chiave, magari localizzata nel luogo stesso in cui si strugge la
tua esistenza. È caratteristico ancora una volta della tua toscanità di gettare
un ponte immaginario tra Pisa e San Francisco.
Ma in questi gemellaggi della Maremma (“fossi diventata ora/ un’unica
antica zolla/ fosse ora la Maremma/ la mia anima definitiva”) con la
controcultura californiana, tu ti trovi a tuo agio e ti ci muovi con grazia. La
tua è una provincia, che per vocazione misteriosa, diventa subito metropoli.
Forse la
poesia si riconosce soprattutto nella capacità di fermarsi sulla soglia del
dicibile; e questo perché il poeta, per forza di cose, è portato a parlare di
sé stesso e il discorso su sé stessi, se vuole essere poetico deve essere
discreto. Così con discrezione sai dire di te stessa: “Ma delle donne io/ sarei le vestigia/ come fugaci gesti in me
racchiusi/ e il non trovare fa sì/ che ci troviamo muti/ soli a cercare/ … / di
rimanere in due/ perdutamente unici”. Altrove invece tu non temi di adottare
l’enfasi unanimistica, l’approccio all’evento politico del giorno. Direi che
non si capisce la prima ispirazione senza tenere conto della seconda.
La tua maniera di essere “presente” e “civile” spiega
e giustifica l’intimità della poesia quando tratta temi privati, esistenziali.
Anche se, come dici: “Non mai/ sarà possibile/ attraverso chiassose/
distanze di aria/ proclamarti lo smarrimento/ della mia stanza”.
In realtà
le tue poesie testimoniano l’attualità della poesia anche quando non cerca di
essere attuale. A fornirci un’idea poetica del tempo tuo e del nostro, non
erano necessarie alla fine, forse le poesie diciamo così “politiche” (come il
ricordo di Giorgiana Masi o quella intitolata “Temporale e festa popolare a
Pietralata”). Bastava l’autoritratto tutto privato nel quale chi ti conosce,
ravviserà facilmente la tua disponibilità, la tua curiosità, la tua accettazione
di ogni esperienza di specie, diciamo così “storica”. Ѐ in fondo anche poesia “civile” parlare di
sé, a patto che lo si faccia non “fuori” dell’epoca, ma “dentro”. Tanto più che
non sei mai sola.
Attraverso i tuoi versi allusivi e trasognati, un po’
simili a certe balenanti apparizioni di Campana, s’intravedono presenze
maschili fascinose e casuali rievocate con un preciso recupero dei dati del
momento. Si ricava l’impressione di una franca femminilità proprio perché
l’uomo vi è preso in considerazione come l’insostituibile “altro”.
Così sia che tu racconti
un aneddoto, sia che registri
l’attimo irripetibile di un rapporto, sia che ti fermi a definire uno stato
d’animo, tu sai rievocare una certa maniera di esistenza con i colori, le
parole e gli accenti non di tutti i tempi e di tutti i giorni, ma proprio di quei
tempi e di quei giorni lì”
“Un collage di impressioni e di
forme rivissute e fermate in un tempo ‘immediato’ senza cadere in
sentimentalismi, uno spostarsi incessante dalla sfera privata a quella pubblica
e politica, un ‘io’ sempre desto e sorretto da una forte e accettata
femminilità. Dei trapassati intendimenti è l’ultima produzione poetica
di Daniela Ripetti Pacchini, che ha voluto qui riunire alcune delle sue poesie
comprese in raccolte precedenti […] Nella lettera-prefazione di Alberto Moravia
fra l’altro si dice: “Nelle tue poesie è visibile l’amabile baldanza toscana
che non conosce limiti di spazio ed è subito moderna (o se preferisci, come si
dice oggi, postmoderna…)”
Daniela Ripetti Pacchini è infatti toscana,
anzi toscanissima, dato che è nata a Pisa anche se da alcuni anni vive
prevalentemente a Roma dove si occupa di giornalismo e psicologia. Ha preso
parte come attrice a Special televisivi di Federico Fellini, ha recitato in
teatro con Carmelo Bene e in televisione in Visita a casa Marx.
E Dei trapassati intendimenti si lega
strettamente a queste esperienze dato che raccoglie in miscellanea poesie
presentate in Festival e concerti nazionali e internazionali di poesia.
Soprattutto in “Les bleu roses” il verso richiama la musica, la gestualità del
teatro […] L’impatto con questa raccolta può creare nel lettore un senso di
disagio per la diversità dei canti qui riprodotti: dall’impegno politico, alla
denuncia, come in “Visione di Giorgiana (Masi) ed Anna (Eugenio), a una poesia
privata, esistenzialmente vibrante,
ricca di colori e di forme in un alternarsi di ritmi, come in “Yer Blues” e in “Divinità-contro Divinità”, “/ Io
senza Dio/ senza io forse finché/ l’autunno di colpo mi tolga il respiro…” Ma il disagio percepibile è frutto solo della
genesi contingente della raccolta.
Nino
Maiellaro da Spirali, N. 65- Luglio-Agosto 1984
“[...] Della poesia della Ripetti bisogna dire che
proviene da una lunga esperienza di ‘performer’ in cui il gesto e la scena sono
parti essenziali. La sua è una poesia di segno metafisico più che reale,
intessuta di vocalità cromatiche, di sonorità ed echi teatrali, in cui il
lessico è molto contratto, molto essenziale, restio a concedere più di quanto
siano le esigenze della pagina scritta. Una poesia che dallo spartito trova
tutte le sollecitazioni possibili per la recitazione, ma non lo adatta alla voce,
non lo gonfia, lascia che il testo nasca prima della voce, che il segno preceda
il suono, in modo che la pagina continui ad esistere quando si saranno spente
le luci dello spettacolo [...]
Da Altiplano, Issue 4; Issues 7-9. Mexico (Mexico:State). Direccion de Patrimonio Culturale, 1985: “La Eternidad de lo efímero se instaura en su poesía [...] Su poema presentado (“Práctica del domingo”) es la mar de cotidiano y ahí está precisamente su encanto: de la nada que es el todo, surge el texto […]”
Traduzione: “L'eternità dell'effimero si instaura nella
sua poesia...” E prendendo ad esempio la poesia Pratica della domenica” (Práctica
del domingo), il recensore scrive: “La poesia qui presentata si muove nel
mare del quotidiano e questo è appunto il suo fascino: dal nulla che è il
tutto, sorge il testo [...]
Raffaele
Pellecchia dall’antologia: La poesia nel Lazio, 1988
“Tensione civile e
urgenza sentimentale, ordiscono la trama della poesia di Daniela Ripetti al
punto che si potrebbe indicare nella figura dell’ossimoro la sua cifra
spirituale e, allo stesso tempo, stilistica più persuasiva. Sottratto al freddo
virtuosismo della letteratura manieristica, l’ossimoro configura l’irrisolta
lacerazione di una coscienza che oscilla tra ripiegamento intimistico e rimorso, tra “incantamenti” e “intendimenti”.
Eloquente spia di questa condizione è la frequente formulazione ottativa (“Fossi
diventata ora”; “Fosse ora la vita il centro della mia vita”;
“se / potessi adire alla campagna”; “vorrei essere – io e te – la
classe/ … come vorrei / bambini inondati di pioggia / essere…”; “e
te vorrei,/ come toccando aria / come toccando terra/ vorrei/ un
arcangelo…”) che denuncia un persistente iato tra essere e voler essere o,
in altri termini, realtà e sogno[...] La sua è una poesia, che, quantunque si
nutra del costante apporto dell’esperienza concreta dell’autrice, gioca la sua
carta espressiva nel versante di un antirealismo perseguito attraverso una
dizione fortemente figurata in grado di rilevare lo spessore della realtà in
forme straniate cui collabora, talvolta, un sapiente uso di spaziature e
dislocazione dei versi.”
Nota introduttiva di
Giampaolo Piccari alla raccolta Marcia della Prudenza 1981 di Daniela
Ripetti Pacchini da Quinta
Generazione 1992
“Tra le ultime tendenze della poesia s’avverte la dilatazione corale, che
la fa uscire allo scoperto e le fa assumere tecniche teatrali, idonee al
bisogno dell’incontro e del dialogo, della testimonianza e del messaggio
solidale, della confessione monologante.
Daniela è attrice, dunque conosce le tecniche
gestuali che devono creare l’amplificatio della scena, anche la sua
ambiguità, quindi il cromatismo, la sonorità, gli accorgimenti grafici, come
spaziature, dislocazione dei versi con dilatazione spaziale, sospensioni e
lessico contratto, vuoti per gli echi di silenzio, lapidarie essenzialità e tutte
gli espedienti offerti dal futurismo e dalle avanguardie per la poesia fonica.
In una sua dichiarazione di poetica, poi, la Ripetti fa sapere che non le
interessa la letteratura di identificazione e consolazione, ma quella di
opposizione e di attivazione che promuova movimento e conoscenza: un po’ di
mistero con molti punti di osservazione perché resti il sentimento di molte
combinazioni.
Avversa all’immobilismo dell’ordine, è favorevole alle smagliature: Pace
è /un irrispettoso rispetto, / pace è incrinare l’ordine/ dello stesso
ordinare/. Bisogna sfuggire per la tangente, dalla realtà nel sogno, nel
mito.
Pellecchia crede che questa poesia, provocatoriamente femminile nell’irrisoluzione delle lacerazioni della coscienza, oscillante tra ripiegamento intimistico e rimorso, tra tensione civile e urgenza sentimentale, tra “incantamenti” e “intendimenti”, nel persistente iato tra l’essere e il voler essere, tra realtà e sogno, raggiunge lo scopo sfuggendo nell’ ottativo attraverso la cifra stilistica dell’ossimoro, come cifra spirituale, nell’ambiguità della scena; ma nella raccolta che qui presentiamo, sempre meno si avvertono le avances retrattili… e sempre più spesso, invece, s’incontrano verbi allusivi e trasognati con cui si arricchisce un ideale di vita ‘nature’: purché resti un segno di sogno.”
Prefazione
di Romano Luperini (1994) alla raccolta di poesie Apache tear di Daniela
Ripetti
In un articolo di Daniela
Ripetti del 1979, uscito sulla terza pagina de “Il Messaggero” il 14 luglio,
trovo questa domanda, che ci porta già nel cuore di Apache Tear: “Com’è possibile sentire
il respiro del corpo della parola quando il nostro corpo, il nostro respiro e
tutte le varie espressioni della nostra fisicità sono controriformisticamente
fustigate da oscuri cilici? La tensione a una fusione anche per via alchemica,
col mondo, a gettare in un crogiuolo solo scrittura, corporalità, sensitività
dell’io e delle cose, fisicità della natura, grazie a talismani, incontri con
antiche leggende, sapienze ancestrali, percorre quasi tutte queste pagine. Ci
si sente, forte, una formazione legata alla tematica del desiderio e della
corporalità che fu tipica degli anni Settanta e in cui si conciliarono talora,
come qui, radicalità politica e pulsioni libertarie provenienti dalla cultura
francese (Deleuze e Guattari, soprattutto), in bilico fra irrazionalismo
simbolistico e anarchismo. (E di tale ispirazione politica resta qualche
traccia potente in una delle prime poesie della raccolta, infatti del 1981: “Pace
non è / rispetto, pace/ è incrinare l’ordine, / dello stesso ordinare”).
L’autrice di questi versi è come attratta
da un punto di fuga vertiginoso – una sorta di punto zero – da una “intersezione
di sogno/ e di tempo”, in cui i suoi sensi possano rinascere in
un’immedesimazione di paniche correspondances e di cui la stessa
scrittura dovrebbe essere immediata manifestazione:
“Così
io mi sento/ nel cangiare dei formicolii e dei blocchi del corpo/ tra cielo e
oceano/ in un’increspatura leggera del foglio…”.
Ma “tornare/ nuova / al mondo” è programma utopico:
l’ardore quasi mistico con cui viene perseguito si scontra con un limite,
ritornante anche stilisticamente, nell’uso dei puntolini di sospensione, la cui
frequenza è proporzionale allo scacco dell’impresa. E il
limite finisce per riguardare anche questa implosione in versi che qualche
volta stentano a distendersi, come inceppati da un’ineffabilità stessa
dell’esperienza tentata o auspicata. D’altronde per Daniela, non potrebbe
essere che così, giacché per lei “Dischiudere il senso / non è un problema
di senso”, ma di recupero di una sensitività e di una corporalità frustrata
dalla civiltà contemporanea.
Il limite viene varcato in due momenti
topici: quando quell’attrazione di cui dicevo diventa la stessa che i
significanti esercitano nei propri stessi confronti calamitandosi a vicenda,
rimandandosi i medesimi suoni e così scorrendo lungo l’asse metonimico delle
assonanze e delle allitterazioni verso quel “buco vuoto/ senza sfondo”
di cui si parla nella poesia Essere e Tempo (“Vorrei se potesse...”)
che sopra ho chiamato ‘punto zero’, e quando si bloccano di colpo privilegiando
l’interruzione fornita dal senso, la chiusura semantica. Nel
primo caso i sensi imprevisti producono esiti surreali (talora originalmente
accoppiati a un’istanza di verginità primitiva); nel secondo un’improvvisa e
trepida chiarezza lirica, più tradizionale, ma in sé perfettamente compiuta
come accade nella poesia “Riarsa di vita…”.
Renzo
Paris (poeta e scrittore):
“La poetessa Daniela Ripetti Pacchini che ricordo al Beat 72 e ai
Festival internazionali romani, ha scritto Una giovinezza
rubata-Memorie di Guerra Fredda, edito da Books & Company. Ha
sapientemente intrecciato l’episodio del Sessantotto, che la vide ingiustamente
arrestata e incarcerata, per 15 mesi, per un inesistente uso di droga, alla
guerra fredda di quegli anni, con la CIA che spadroneggiava e spadroneggia
ancora da noi. I giornali dell’epoca erano pieni di fake sulla fascinosa
modella, amica di cantanti e attori famosissimi, che animavano le serate di
quella Roma rivoltata. Un libro davvero originale, più storico che
memorialistico.” Facebook 21 settembre
2019
Augusto Illuminati (filosofo) frammenti dalla sua recensione a Una Giovinezza rubata su OperaViva Magazine, 27 ottobre 2019
“Non era insolito che
nel 1968, a scopo “pedagogico”, la polizia pescasse a caso qualcuno negli
ambienti politicizzati o contro-culturali e, altrettanto per caso, rinvenisse
in automobile o in una tasca qualche traccia di droga, con relativo scandalo
mediatico, arresto e più o meno lunga detenzione preventiva (all’epoca quasi
illimitata). Prove generali per la grande repressione che sarebbe scattata di
lì a poco. […]
[…] Nell’aprile del 1968
una ragazza diciottenne, modella occasionale, poi poeta e performer, una dei
protagonisti del festival di Castelporziano del 1979, viene selezionata quale
capro espiatorio e gettata in pasto alla stampa scandalistica per presunto possesso
di 0,5 grammi di hashish e tenuta a Rebibbia per 14 mesi prima dell’assoluzione
con formula piena. Un bel pezzo di giovinezza rubata.
Ma Daniela Ripetti ha voluto rievocare
quella vicenda, che pure l’ha profondamente segnata ed è stata anche occasione
di produzione poetica, non come caso personale ma in un contesto
storico-politico, esempio di una campagna internazionale mirata volta a
«smagnetizzare» i movimenti di sinistra e il loro prestigio culturale con una
gamma di infiltrazioni e provocazioni che andava dalla ben pagata critica
destrutturante alla diffamazione e persecuzione personale con vieti metodi
polizieschi. Infatti il sottotitolo del libro recita: Memorie di Guerra Fredda (Books&Company,
2019) […]
[…] Con retrospettiva generosità Daniela Ripetti incastona la sua sfortunata vicenda in quella lunga catena di complotti e provocazioni nel momento in cui tocca la grande stagione ribelle italiana fra il 1968 e il 1977 – come del resto aveva fatto in termini poetici e non storiografici come adesso, per esempio in Virus o il Furto di Atlantide. Ne risulta un libro composito e istruttivo, che testimonia un’epoca conclusa di contrapposizione polare, anche se gli stessi metodi continuano ad applicarsi in un universo multilaterale di imperi, servizi, sopraffazioni e congiure, dove il potere, per essere «post-ideologico», non ha certo perso i suoi tratti inquinanti e criminali di sempre.”
Poesia-
Phoenix di Daniela Ripetti Pacchini, recensione
di Riccardo Tavani su Stampa Critica del 31 gennaio 2023, Numero 02/2023
“L’editore Transeuropa, nella collana Nuova Poetica,
pubblica la plaquette di Daniela Ripetti-Pacchini dal titolo Poesia-Phoenix.
Un’autrice dell’avanguardia poetica di cui abbiamo già scritto per due sue
precedenti pubblicazioni. Ricordate nell’ordine cronologico sono: Una
giovinezza rubata, grande libro di ricostruzione storico-politica della
generazione ribelle della seconda metà del secolo scorso, da noi segnalato nel
numero 12 del 30 giugno 2020. Seguito da La poesia e il suo doppio,
quasi un’opera omnia della poetessa, di cui potete leggerci nel numero 7 del 17
aprile 2021.
La poesia e il suo doppio,
sopra richiamato, svela l’ampia portata dell’architettura d’avanguardia e di
giustizia poetica sviluppata da Ripetti-Pacchini. Poesia-Phoenix,
la plaquette di questo 2023, è invece una fuggente navicella che si stacca come
un frammento dall’astronave madre per correr più veloci acque e,
come la navicella dell’ingegno di Dante che alza le vele nel primo canto del
Purgatorio, attraversa i leopardiani interminati spazi e sovrumani
silenzi, tra interiori galassie di coscienze disperse. Questo
perché ormai: “Rasoterra è il nostro cielo/ più alto e all’idea di/ guardarlo…
all’idea di toccarlo/ già ci perdiamo…” (corsivo mio). E anche
Orfeo sotto quel cielo “vaga col suo canto fioco/ barcolla con la sua lira
poggiato un po’ di sbieco/ ubriaco… di Aldilà…”.
Dalla sua discesa agli inferi, Orfeo non lo attende
più neanche Euridice, la quale, invece, attende la giustizia dovutale.
Giustizia per il tentato rapimento, stupro del pastore Aristeo, e morso di
serpente che la sperse alla vista della vita, non all’esistenza della
coscienza. Coscienza che non può cessare di attendere, perché
Giustizia è iscritta nel nome stesso di Euridice: Eury-Dikē.
L’etimologia è: Eury, vasto, ampio; Dikē, giustizia.
Ossia: ampiamente giusta, giustissima. Eury, proprio per il suo
significato di vastità, dà nome anche a Europa. Giustizia ed Europa, sono
originariamente inseparabili nella nostra civiltà. Per questo la poesia, in
quanto patria originariamente sempre in atto sia del mythos, sia
del logos, cioè della parola, non può cessare, non può
fare a meno di tendere alla giustizia. È una sua necessità, perché
la primigenia forma di giustizia è proprio nel dirsi autentico della parola,
non nel suo negarsi o contraddirsi. In forma di coscienza, percezione e
parola, la giustizia in sé, come Euridice, come la poesia, è la
vittima suprema di aggressione, avvelenamento da parte dell’ingiustizia.
L’ingiustizia – nelle molteplici forme e sembianze in cui appare e ci si abbatte contro – è proprio la più drammatica delle esperienze umane. E per lo più l’umano non riesce a trovare nessuna difesa da essa che non siano altre contro tragiche forme d’ingiustizia. A dimensione individuale, collettiva, statuale. Così che è inevitabile, quasi una maledizione destinale, l’andare del mondo fuor dei cardini. E per niente uno scherzo della sorte, per dirla con Amleto e Shakespeare, è che proprio alle grandi poete, poeti, ai veri artisti tocchi l’immane fatica di riportarlo in sesto. O per dirlo con i versi della poeta: “Non riordinerò questo universo/ né spererò nell’azzurro/ ma scenderò nell’azzurro…/ smagliatura d’intreccio o albore già smagliato…/ colore senza fondo/ più bello/ dell’umano”.
Il titolo della plaquette di Ripetti-Pacchini, Poesia-Phoenix,
è preso da quello di un componimento dedicato a un altro grande poeta della sua
generazione e suo fratello in poesia, Dario Bellezza. Il titolo del
suo libro Morte segreta, vincitore del Premio Viareggio nel 1976, è
richiamato nel primo verso: “È nella tua specie di morte… segreta/ che torni
Dario nelle mie memorie”. Nello “Scordarsi… ritrovarsi”, infatti, è “come
fosse l’infanzia e invece/ sempre sul punto di finire/ rinascere alla fine come
la Fenice/ ogni volta tra i bidoni d’immondizia/ e le delizie.”
Il
tipo di opposizione, espressa qui con immondizia/delizia, ricorre
in quasi tutti i componimenti di questa raccolta. Dalle prime pagine alle
ultime:
infinito
morso/ infinito riso;
l’antecedente
mi fu conseguente;
quando
appresi che io/ non ero io, non ero/ nata…/ per capire di me, decisi/ di
dimenticarmi;
io
dove trovavo/ la nuova domanda/ che mi sbarazzasse dalle risposte?;
tutto
incanta / tutto incatena;
In
estate fatalmente tornò/ con un profilo falso e vero;
tanto
gentile sei/ come gentile stilla/ di nero abisso;
che
i tanti tu, sono infine uno;
Seri
sognatori/… intimi esecutori di mirabili in fieri;
pace/
è incrinare l’ordine/ dello stesso ordinare;
come
asfalto astratto/ e tutto deserto/ o tutto splendore/ d’asfalto sfatto;
in
lampeggianti bagliori di Nero…;
cherubici
girovaghi/ dall’esilio esiliati;
O
per la lucente caligine/… o per la santa tenebrìa/… come la festa, / nelle
Ceneri;
le
parole che crescono/ Verbo crescente/ decrescono nei sensi/ verba deficiunt;
del
celeste male/… morire e far festa;
latte
e fiele/… incantamenti amari;
Finché
c’è l’infinito c’è una porta/ e resta il desiderio/ sulla soglia…;
sebbene
frusta sia la soglia del dire…/ Orfeo continua a cantare… canta e muore/ muore
e canta… condannato a non morire. Spiccata la testa dal collo bianco…/ con voce
spirante, Orfeo ripete:/ “Eury-dike… Euridice…”;
Tempo
vuoto/ benché pieno/… Dolce tempo/ benché asperrimo/… sveli la luna/ gravida di
sole eterno;
noi…
termini intermedi/ tra l’immensità e il vuoto;
come
aculeo che dura eternamente/… che sorga come musica invisibile/ e sveli il
Paradiso del frattempo.
Non si possono certo esaurire in un breve articolo tutti gli aspetti – che rifulgono anche in questa sua breve raccolta – dell’intera opera di Daniela Ripetti-Pacchini, ma se abbiamo qui voluto insistere su un tema particolare è perché giustizia innanzitutto andrebbe restituita a questa grande poetessa della nostra avanguardia, i cui versi, quale eco di fondo, “tremano, / come aggrappati all’aria”. Tanto che una ragazza, un ragazzo di ieri, nelle loro “altissime/ confuse… bestemmie…”, possono ancora profeticamente avvertire in loro: “Un’epoca ci divide. / Tu, mi risplenderai dopo”. Prima di dopo, però, lei già sta splendendo e continua a farlo, semplicemente tessendo poesia non solo in forma di rosa o di cosa, ma di e con l’inseparabile Dike, Giustizia. Metricamente respirando, sussurrando: “Ora mi siedo per un po’/ in questo vecchio luogo/ a spolverare la polvere/ la polvere… e l’Oro…”.
“[…] Poesia - Phoenix è una plaquette
di poesia davvero raffinata, la poetessa sembra avere raggiunto l’apice intenso
dell’eternità attraverso il verso sciolto, ripropone vecchi e nuovi testi, il
suo è un linguaggio universale che trascende ogni condizione,
scrive in italiano e in inglese, è capace di catturare il proprio vissuto per
trafiggerlo come stelle, una per una, su questi fogli di carta che
rappresentano le sue memorie. È inevitabile non venire colpiti da una tale
sconfinata dolcezza... “e dovendo interrogare tutti i fantasmi/per
capire di me, decisi/di dimenticarmi…”
Da Roma a Praga, dall’Europa all’America, sono ancora
tante le tappe poetiche che questa autrice ha attraversato durante la sua vita,
per tutto questo tempo non ha mai smesso di scrivere, di vivere l’arte e la
poesia sulla propria pelle, neppure quando è stata colpita da una terribile
patologia che l’ha esiliata dal mondo dopo svariati ricoveri.
Sono racchiusi in questa plaquette anche i versi che
ha scritto durante le prove del Romeo e Giulietta di Carmelo Bene nel
1977, a testimoniare il fervore, l’intensa dedicazione al dio del verso:
“Nemici della pace...che profanate
queste rosse spade nel fratricidio…
È già la terza volta...Capuleti e
Montecchi…
È già la terza volta…”
Ma come siamo bravi a fomentare l’odio
vanità è l’unica reale
fittizio macinino che logora i giorni
bella vanità è starsene fra i sogni
e amare la realtà nella misura in
cui...s’en va [...]”
(Versi iniziali di
Evanescenze dalla raccolta Poesia-Phoenix, Daniela Ripetti Pacchini)
Per apprezzare al meglio la poetica di Daniela
Ripetti Pacchini dobbiamo leggerla con attenzione, dobbiamo osservarla
facendo qualche passo indietro, da lontano, come per ammirare un meraviglioso
paesaggio, una di quelle lande poderose e sconfinate che tolgono il respiro. È
così che si apprezza l’incanto, osservando attentamente ogni minimo dettaglio
con una visione molto più ampia.
Le sue poesie richiamano a un tormento che
diviene innovazione, sacrificio, la medicina dell’anima che goccia
dopo goccia scava nell’interminabile scandire delle ore: “Non ergete lapidi
a Orfeo.../intona il poeta/sebbene frusta sia la soglia del dire.../Orfeo
continua a cantare...canta e muore, /muore e canta.../condannato a non morire.”
La
vita è irreparabile
questo
dolore è irreparabile
solo,
senza
scampo di morte.
Io
e te, Emily,
oggi
prendiamo un tè
raccontiamoci
le cose
da
vecchie amiche…
dimmi
una parola audace ridente
fammi
giocare,
noi...termini
intermedi
tra
l’immensità e il vuoto,
piccole
cose da poco
stelle
già svanite
e
nessuno che inveri la storia
di
quel flebile istante
dove
la vita ritorna a vivere.
Venga
il male fisico
la
vertigine del dolore
che
mi distragga dal dolore peggiore:
quello
irreparabile
di
vivere.
(Poesia dalla raccolta Poesia - Phoenix, Daniela
Ripetti Pacchini)
La scrittura di questa poetessa trasuda verità,
riesce a smuovere e dinamizzare le parole che non restano incollate al foglio,
si sfilacciano a grappoli e, ogni acino sinteticamente, ci racconta il
respiro del corpo.
Nella sua poesia BIG
PICACHO è racchiuso il richiamo a terre lontane, a popoli che sono
stati tremendamente perseguitati come le tribù Apache in Arizona,
memorie ritrovate che si mantengono in vita in versi toccanti come le lacrime
di quelle donne indiane segnate dal grande dolore. E anche in APACHE
TEAR ci racconta di quanto è difficile camminare nel bordo di questo
abisso scivoloso e tondo, di quanto è forte il desiderio di rinascere, di tornare
nuova al mondo…
In conclusione, mi sento
molto legato a questo genere di scrittura, alla meditazione poetica che
partorisce speranza, c’è un bisogno crescente di purezza al giorno
d’oggi, non dobbiamo mai smettere di cibarci di poeti assoluti come Daniela
Ripetti Pacchini, poeti che sono in grado di richiamare
qualcosa di estremamente intimo, di far vibrare l’animo umano attraverso le
proprie idee. Leggete Poesia – Phoenix, condividete questa nuova
plaquette di versi, affrontate la vita con la stessa caparbietà di
questa poetessa speciale.
IMPROVVISO
...l’antecedente
mi fu
conseguente
e
la catena leggendaria
di
ombre che mi erano appartenute
naufragò
come
una vecchia gomena…
tutto
passò
in
repentino cambiamento
davanti
ai miei occhi
quando
appresi che io
non
ero io, non ero
nata
e
dovendo interrogare tutti i fantasmi
per
capire di me, decisi
di
dimenticarmi.
(Poesia dalla raccolta Poesia-Phoenix, Daniela Ripetti Pacchini)”
Fabrizio Raccis, gennaio 2023Estratto dalla recensione di Riccardo
Tavani su “Stampa Critica” al libro Addio Roma e altre poesie (30
dicembre 2024)
"Della poeta Daniela Ripetti-Pacchini abbiamo
recensito nel tempo diverse raccolte di versi. E anche un libro di storia
contemporanea fondamentale: Una giovinezza rubata, Memorie di Guerra
Fredda, Book&Company, 2019. […] Ora
una sua nuova plaquette di poesie è apparsa nelle vetrine, tra gli scaffali
reali delle librerie e in quelli virtuali delle vendite on-line.
Uscito per Transeuropa Edizioni, prende il titolo di Addio Roma e altre
poesie. La collana in cui l’editore presenta questa sua uscita si
chiama Nuova Poetica. E viene subito da domandarsi: “Qual è la
relazione tra l’opera di Daniela Ripetti-Pacchini e l’espressione, il concetto
di Nuova Poetica?”
Il tempo ritrovato,
l’ultimo libro della sterminata Recherche proustiana, contiene un passo ben
noto e caro all’autrice: “Se il ricordo, grazie all’oblio, non ha potuto
contrarre nessun legame, gettare nessun ponte tra sé e il momento presente: se
è rimasto nel suo proprio luogo, alla sua propria data, se ha conservato le
distanze, il suo isolamento nella profondità d’una valle o sulla vetta d’una
montagna…”. Tale irrimediabile separatezza, scissione tra gli eventi in cui
Marcel Proust s’imbatte alla ricerca nel tempo perduto, sono
tutti quei folgoranti frammenti che improvvisamente riaffiorano dal passato e
ci riportano alle labbra il lontano sapore di una madeleine inzuppata nel tè.
Questo, però, non avviene nell’opera poetica di
Daniela Ripetti-Pacchini, perché lei stratifica i suoi versi non solo e non
tanto di citazioni, ma di veri e propri echi linguistici di tutta la storia e
la prassi letteraria non unicamente italiana, ma di tutto il mondo. Echi anche
iconografici di quadri, inquadrature cinematografiche, e suoni, brani musicali.
Prosegue il brano di Proust
“… esso ci fa di colpo respirare un’aria nuova, – nuova proprio perché è
un’aria che s’è già respirata in passato, – quell’aria più pura che invano i
poeti hanno tentato di far regnare in Paradiso, e che non potrebbe darci questa
sensazione profonda di rinnovellamento se non fosse già stata respirata, perché
i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduti”.
Ecco, nella
versificazione di Ripetti-Pacchini, questo colpo di respiro,
d’aria anticamente nuova, è intessuto ab origine, sia nella
lingua, sia nella metrica, nel ritmo musicale libero che lei scandisce. Per
questo l’avanguardia nella sua opera non ha bisogno del tempo per
diventare classicità, come avviene costantemente nella storia
dell’arte. Mai la dizione Nuova Poetica, ossia il nome la collana
editoriale che ospita questa sua raccolta di versi, ha così profondamente
corrisposto alle forme e ai contenuti della sintesi poetico-esistenziale che
graficamente riveste. Sintesi, infatti, che risuona ancora oggi d’avanguardia,
perché essa non va alla ricerca, ma reca dentro di sé la gioia, la gloria della
novità autentica, della novella nell’annuncio a ogni verso del paradiso
ritrovato […]”
La
poetessa, scrittrice e saggista Gabriella Sica commentando Addio Roma e
altre poesie scrive:
“Vedo
che il periodo romano è il tuo totem archetipico e cronologico a cui ritorni
con consueta delicatezza che vela il fondo oscuro e nostalgico.
Questo
è il tuo congedo da Roma e l’approdo a un altro tempo.
Bello
che tu ricordi come disegnando acquarelli e colorando tinte sfumate.”