domenica 3 agosto 2025


Estratti di prefazioni, recensioni e note nel tempo ad alcuni scritti in versi e in prosa di Daniela Ripetti Pacchini

Daniela Ripetti (cognome completo: Ripetti Pacchini) è scrittrice e poetessa. In passato ha svolto attività di psicologa-psicoterapeuta e ha collaborato a diversi quotidiani e riviste italiane. Si è occupata inoltre di teatro e ha lavorato in Italia e in Francia con Carmelo Bene.

Durante la sua formazione universitaria e la specializzazione ha vissuto prevalentemente a Roma fino agli inizi degli anni Ottanta quando, a causa di una grave patologia, è tornata a Pisa, sua città natale. 


Lettera-prefazione di Alberto Moravia (1982)

 

“Cara Daniela, nelle tue poesie è visibile l’amabile baldanza toscana che non conosce limiti di tempo e di spazio ed è subito moderna (o se preferisci, come si dice oggi postmoderna). Appartieni, insomma, a una cultura sempre capace di sorprendere l’attimo che fugge, anche se la tradizione è all’angolo della strada nel momento stesso che viene respinta e negata. Questa è la tua fortuna; ma non è forse anche la fortuna una qualità di cui alla fine possiamo rivendicare il merito?

   Tu alterni l’idea di una poesia della rivolta ‘civile’, a quella di una poesia per te sola, magari a chiave, magari localizzata nel luogo stesso in cui si strugge la tua esistenza. È caratteristico ancora una volta della tua toscanità di gettare un ponte immaginario tra Pisa e San Francisco.  Ma in questi gemellaggi della Maremma (“fossi diventata ora/ un’unica antica zolla/ fosse ora la Maremma/ la mia anima definitiva”) con la controcultura californiana, tu ti trovi a tuo agio e ti ci muovi con grazia. La tua è una provincia, che per vocazione misteriosa, diventa subito metropoli.

   Forse la poesia si riconosce soprattutto nella capacità di fermarsi sulla soglia del dicibile; e questo perché il poeta, per forza di cose, è portato a parlare di sé stesso e il discorso su sé stessi, se vuole essere poetico deve essere discreto. Così con discrezione sai dire di te stessa: “Ma delle donne io/ sarei le vestigia/ come fugaci gesti in me racchiusi/ e il non trovare fa sì/ che ci troviamo muti/ soli a cercare/ … / di rimanere in due/ perdutamente unici”. Altrove invece tu non temi di adottare l’enfasi unanimistica, l’approccio all’evento politico del giorno. Direi che non si capisce la prima ispirazione senza tenere conto della seconda.

La tua maniera di essere “presente” e “civile” spiega e giustifica l’intimità della poesia quando tratta temi privati, esistenziali. Anche se, come dici: “Non mai/ sarà possibile/ attraverso chiassose/ distanze di aria/ proclamarti lo smarrimento/ della mia stanza”.

     In realtà le tue poesie testimoniano l’attualità della poesia anche quando non cerca di essere attuale. A fornirci un’idea poetica del tempo tuo e del nostro, non erano necessarie alla fine, forse le poesie diciamo così “politiche” (come il ricordo di Giorgiana Masi o quella intitolata “Temporale e festa popolare a Pietralata”). Bastava l’autoritratto tutto privato nel quale chi ti conosce, ravviserà facilmente la tua disponibilità, la tua curiosità, la tua accettazione di ogni esperienza di specie, diciamo così “storica”.  Ѐ in fondo anche poesia “civile” parlare di sé, a patto che lo si faccia non “fuori” dell’epoca, ma “dentro”. Tanto più che non sei mai sola.

Attraverso i tuoi versi allusivi e trasognati, un po’ simili a certe balenanti apparizioni di Campana, s’intravedono presenze maschili fascinose e casuali rievocate con un preciso recupero dei dati del momento. Si ricava l’impressione di una franca femminilità proprio perché l’uomo vi è preso in considerazione come l’insostituibile “altro”.

Così sia che tu racconti un aneddoto, sia che registri l’attimo irripetibile di un rapporto, sia che ti fermi a definire uno stato d’animo, tu sai rievocare una certa maniera di esistenza con i colori, le parole e gli accenti non di tutti i tempi e di tutti i giorni, ma proprio di quei tempi e di quei giorni lì”

 Da: “In una raccolta poetica le ‘civili certezze’ di Daniela Ripetti-Pacchini, autrice toscanissima”, La Nazione, Martedì 4 ottobre 1983

“Un collage di impressioni e di forme rivissute e fermate in un tempo ‘immediato’ senza cadere in sentimentalismi, uno spostarsi incessante dalla sfera privata a quella pubblica e politica, un ‘io’ sempre desto e sorretto da una forte e accettata femminilità. Dei trapassati intendimenti è l’ultima produzione poetica di Daniela Ripetti Pacchini, che ha voluto qui riunire alcune delle sue poesie comprese in raccolte precedenti […] Nella lettera-prefazione di Alberto Moravia fra l’altro si dice: “Nelle tue poesie è visibile l’amabile baldanza toscana che non conosce limiti di spazio ed è subito moderna (o se preferisci, come si dice oggi, postmoderna…)

Daniela Ripetti Pacchini è infatti toscana, anzi toscanissima, dato che è nata a Pisa anche se da alcuni anni vive prevalentemente a Roma dove si occupa di giornalismo e psicologia. Ha preso parte come attrice a Special televisivi di Federico Fellini, ha recitato in teatro con Carmelo Bene e in televisione in Visita a casa Marx.

E Dei trapassati intendimenti si lega strettamente a queste esperienze dato che raccoglie in miscellanea poesie presentate in Festival e concerti nazionali e internazionali di poesia. Soprattutto in “Les bleu roses” il verso richiama la musica, la gestualità del teatro […] L’impatto con questa raccolta può creare nel lettore un senso di disagio per la diversità dei canti qui riprodotti: dall’impegno politico, alla denuncia, come in “Visione di Giorgiana (Masi) ed Anna (Eugenio), a una poesia privata,  esistenzialmente vibrante, ricca di colori e di forme in un alternarsi di ritmi,  come in “Yer Blues”  e in “Divinità-contro Divinità”, “/ Io senza Dio/ senza io forse finché/ l’autunno di colpo mi tolga il respiro…”  Ma il disagio percepibile è frutto solo della genesi contingente della raccolta.


Nino Maiellaro da Spirali, N. 65- Luglio-Agosto 1984

“[...] Della poesia della Ripetti bisogna dire che proviene da una lunga esperienza di ‘performer’ in cui il gesto e la scena sono parti essenziali. La sua è una poesia di segno metafisico più che reale, intessuta di vocalità cromatiche, di sonorità ed echi teatrali, in cui il lessico è molto contratto, molto essenziale, restio a concedere più di quanto siano le esigenze della pagina scritta. Una poesia che dallo spartito trova tutte le sollecitazioni possibili per la recitazione, ma non lo adatta alla voce, non lo gonfia, lascia che il testo nasca prima della voce, che il segno preceda il suono, in modo che la pagina continui ad esistere quando si saranno spente le luci dello spettacolo [...]

 Da Altiplano, Issue 4; Issues 7-9. Mexico (Mexico:State). Direccion de Patrimonio Culturale, 1985: “La Eternidad de lo efímero se instaura en su poesía [...] Su poema presentado (“Práctica del domingo”) es la mar de cotidiano y ahí está precisamente su encanto: de la nada que es el todo, surge el texto […]”

Traduzione: “L'eternità dell'effimero si instaura nella sua poesia...” E prendendo ad esempio la poesia Pratica della domenica” (Práctica del domingo), il recensore scrive: “La poesia qui presentata si muove nel mare del quotidiano e questo è appunto il suo fascino: dal nulla che è il tutto, sorge il testo [...] 

Raffaele Pellecchia dall’antologia: La poesia nel Lazio, 1988

“Tensione civile e urgenza sentimentale, ordiscono la trama della poesia di Daniela Ripetti al punto che si potrebbe indicare nella figura dell’ossimoro la sua cifra spirituale e, allo stesso tempo, stilistica più persuasiva. Sottratto al freddo virtuosismo della letteratura manieristica, l’ossimoro configura l’irrisolta lacerazione di una coscienza che oscilla tra ripiegamento intimistico e rimorso, tra “incantamenti” e “intendimenti”. Eloquente spia di questa condizione è la frequente formulazione ottativa (“Fossi diventata ora”; “Fosse ora la vita il centro della mia vita”; “se / potessi adire alla campagna”; “vorrei essere – io e te – la classe/ … come vorrei / bambini inondati di pioggia / essere…”; “e te vorrei,/ come toccando aria / come toccando terra/ vorrei/ un arcangelo…”) che denuncia un persistente iato tra essere e voler essere o, in altri termini, realtà e sogno[...] La sua è una poesia, che, quantunque si nutra del costante apporto dell’esperienza concreta dell’autrice, gioca la sua carta espressiva nel versante di un antirealismo perseguito attraverso una dizione fortemente figurata in grado di rilevare lo spessore della realtà in forme straniate cui collabora, talvolta, un sapiente uso di spaziature e dislocazione dei versi.”

Nota introduttiva di Giampaolo Piccari alla raccolta Marcia della Prudenza 1981 di Daniela Ripetti Pacchini da Quinta Generazione 1992

“Tra le ultime tendenze della poesia s’avverte la dilatazione corale, che la fa uscire allo scoperto e le fa assumere tecniche teatrali, idonee al bisogno dell’incontro e del dialogo, della testimonianza e del messaggio solidale, della confessione monologante.

Daniela è attrice, dunque conosce le tecniche gestuali che devono creare l’amplificatio della scena, anche la sua ambiguità, quindi il cromatismo, la sonorità, gli accorgimenti grafici, come spaziature, dislocazione dei versi con dilatazione spaziale, sospensioni e lessico contratto, vuoti per gli echi di silenzio, lapidarie essenzialità e tutte gli espedienti offerti dal futurismo e dalle avanguardie per la poesia fonica.

In una sua dichiarazione di poetica, poi, la Ripetti fa sapere che non le interessa la letteratura di identificazione e consolazione, ma quella di opposizione e di attivazione che promuova movimento e conoscenza: un po’ di mistero con molti punti di osservazione perché resti il sentimento di molte combinazioni.

Avversa all’immobilismo dell’ordine, è favorevole alle smagliature: Pace è /un irrispettoso rispetto, / pace è incrinare l’ordine/ dello stesso ordinare/. Bisogna sfuggire per la tangente, dalla realtà nel sogno, nel mito.

Pellecchia crede che questa poesia, provocatoriamente femminile nell’irrisoluzione delle lacerazioni della coscienza, oscillante tra ripiegamento intimistico e rimorso, tra tensione civile  e urgenza sentimentale, tra “incantamenti” e  “intendimenti”, nel persistente iato tra l’essere  e il voler essere, tra realtà e sogno, raggiunge lo scopo  sfuggendo nell’ ottativo attraverso la cifra stilistica dell’ossimoro, come cifra spirituale, nell’ambiguità della scena; ma nella raccolta che qui presentiamo, sempre meno si avvertono le avances retrattili… e sempre più spesso, invece, s’incontrano verbi allusivi e trasognati con cui si arricchisce un ideale di vita ‘nature’: purché resti un segno di sogno.”

Prefazione di Romano Luperini (1994) alla raccolta di poesie Apache tear di Daniela Ripetti

     In un articolo di Daniela Ripetti del 1979, uscito sulla terza pagina de “Il Messaggero” il 14 luglio, trovo questa domanda, che ci porta già nel cuore di Apache Tear: “Com’è possibile sentire il respiro del corpo della parola quando il nostro corpo, il nostro respiro e tutte le varie espressioni della nostra fisicità sono controriformisticamente fustigate da oscuri cilici? La tensione a una fusione anche per via alchemica, col mondo, a gettare in un crogiuolo solo scrittura, corporalità, sensitività dell’io e delle cose, fisicità della natura, grazie a talismani, incontri con antiche leggende, sapienze ancestrali, percorre quasi tutte queste pagine. Ci si sente, forte, una formazione legata alla tematica del desiderio e della corporalità che fu tipica degli anni Settanta e in cui si conciliarono talora, come qui, radicalità politica e pulsioni libertarie provenienti dalla cultura francese (Deleuze e Guattari, soprattutto), in bilico fra irrazionalismo simbolistico e anarchismo. (E di tale ispirazione politica resta qualche traccia potente in una delle prime poesie della raccolta, infatti del 1981: “Pace non è / rispetto, pace/ è incrinare l’ordine, / dello stesso ordinare”).      

    L’autrice di questi versi è come attratta da un punto di fuga vertiginoso – una sorta di punto zero – da una “intersezione di sogno/ e di tempo”, in cui i suoi sensi possano rinascere in un’immedesimazione di paniche correspondances e di cui la stessa scrittura dovrebbe essere immediata manifestazione:

Così io mi sento/ nel cangiare dei formicolii e dei blocchi del corpo/ tra cielo e oceano/ in un’increspatura leggera del foglio…”.

   Ma “tornare/ nuova / al mondo” è programma utopico: l’ardore quasi mistico con cui viene perseguito si scontra con un limite, ritornante anche stilisticamente, nell’uso dei puntolini di sospensione, la cui frequenza è proporzionale allo scacco dell’impresa. E il limite finisce per riguardare anche questa implosione in versi che qualche volta stentano a distendersi, come inceppati da un’ineffabilità stessa dell’esperienza tentata o auspicata. D’altronde per Daniela, non potrebbe essere che così, giacché per lei “Dischiudere il senso / non è un problema di senso”, ma di recupero di una sensitività e di una corporalità frustrata dalla civiltà contemporanea.

Dietro ci si sente forse, l’eco della poesia americana (Ginsberg), certamente l’impeto “orfico” di Campana (d’altronde indirettamente citato più volte; si veda, per esempio, la poesia Canone enigmatico che rinvia implicitamente a La Chimera). 

     Il limite viene varcato in due momenti topici: quando quell’attrazione di cui dicevo diventa la stessa che i significanti esercitano nei propri stessi confronti calamitandosi a vicenda, rimandandosi i medesimi suoni e così scorrendo lungo l’asse metonimico delle assonanze e delle allitterazioni verso quel “buco vuoto/ senza sfondo” di cui si parla nella poesia Essere e Tempo (“Vorrei se potesse...”) che sopra ho chiamato ‘punto zero’, e quando si bloccano di colpo privilegiando l’interruzione fornita dal senso, la chiusura semantica. Nel primo caso i sensi imprevisti producono esiti surreali (talora originalmente accoppiati a un’istanza di verginità primitiva); nel secondo un’improvvisa e trepida chiarezza lirica, più tradizionale, ma in sé perfettamente compiuta come accade nella poesia “Riarsa di vita…”.

     Quest’ultimo testo, anzi, è un bell’esempio di fusione dei vari aspetti della ricerca di Daniela: lo slittamento dei significati (“norma… forma… foglia… adombra”) non tende qui all’infinito, ma si condensa alla fine, in una clausola ferma e perfetta: “al dileguar della norma / non resta né forma / né anima viva, ma un/ mobile lieve frusciare / di foglia che culla e / adombra la mia dipartita…

Frammenti di note critiche e recensioni a “Una giovinezza rubata - Memorie di guerra fredda” del 2019


Renzo Paris (poeta e scrittore):

 “La poetessa Daniela Ripetti Pacchini che ricordo al Beat 72 e ai Festival internazionali romani, ha scritto Una giovinezza rubata-Memorie di Guerra Fredda, edito da Books & Company. Ha sapientemente intrecciato l’episodio del Sessantotto, che la vide ingiustamente arrestata e incarcerata, per 15 mesi, per un inesistente uso di droga, alla guerra fredda di quegli anni, con la CIA che spadroneggiava e spadroneggia ancora da noi. I giornali dell’epoca erano pieni di fake sulla fascinosa modella, amica di cantanti e attori famosissimi, che animavano le serate di quella Roma rivoltata. Un libro davvero originale, più storico che memorialistico.”  Facebook 21 settembre 2019

 

Augusto Illuminati (filosofo) frammenti dalla sua recensione a Una Giovinezza rubata su OperaViva Magazine, 27 ottobre 2019

“Non era insolito che nel 1968, a scopo “pedagogico”, la polizia pescasse a caso qualcuno negli ambienti politicizzati o contro-culturali e, altrettanto per caso, rinvenisse in automobile o in una tasca qualche traccia di droga, con relativo scandalo mediatico, arresto e più o meno lunga detenzione preventiva (all’epoca quasi illimitata). Prove generali per la grande repressione che sarebbe scattata di lì a poco. […]

   […] Nell’aprile del 1968 una ragazza diciottenne, modella occasionale, poi poeta e performer, una dei protagonisti del festival di Castelporziano del 1979, viene selezionata quale capro espiatorio e gettata in pasto alla stampa scandalistica per presunto possesso di 0,5 grammi di hashish e tenuta a Rebibbia per 14 mesi prima dell’assoluzione con formula piena. Un bel pezzo di giovinezza rubata.

Ma Daniela Ripetti ha voluto rievocare quella vicenda, che pure l’ha profondamente segnata ed è stata anche occasione di produzione poetica, non come caso personale ma in un contesto storico-politico, esempio di una campagna internazionale mirata volta a «smagnetizzare» i movimenti di sinistra e il loro prestigio culturale con una gamma di infiltrazioni e provocazioni che andava dalla ben pagata critica destrutturante alla diffamazione e persecuzione personale con vieti metodi polizieschi. Infatti il sottotitolo del libro recita: Memorie di Guerra Fredda (Books&Company, 2019) […]

[…] Con retrospettiva generosità Daniela Ripetti incastona la sua sfortunata vicenda in quella lunga catena di complotti e provocazioni nel momento in cui tocca la grande stagione ribelle italiana fra il 1968 e il 1977 – come del resto aveva fatto in termini poetici e non storiografici come adesso, per esempio in Virus o il Furto di Atlantide. Ne risulta un libro composito e istruttivo, che testimonia un’epoca conclusa di contrapposizione polare, anche se gli stessi metodi continuano ad applicarsi in un universo multilaterale di imperi, servizi, sopraffazioni e congiure, dove il potere, per essere «post-ideologico», non ha certo perso i suoi tratti inquinanti e criminali di sempre.”

 Poesia- Phoenix di Daniela Ripetti Pacchini, recensione di Riccardo Tavani su Stampa Critica del 31 gennaio 2023, Numero 02/2023

“L’editore Transeuropa, nella collana Nuova Poetica, pubblica la plaquette di Daniela Ripetti-Pacchini dal titolo Poesia-Phoenix. Un’autrice dell’avanguardia poetica di cui abbiamo già scritto per due sue precedenti pubblicazioni. Ricordate nell’ordine cronologico sono: Una giovinezza rubata, grande libro di ricostruzione storico-politica della generazione ribelle della seconda metà del secolo scorso, da noi segnalato nel numero 12 del 30 giugno 2020. Seguito da La poesia e il suo doppio, quasi un’opera omnia della poetessa, di cui potete leggerci nel numero 7 del 17 aprile 2021.

La poesia e il suo doppio, sopra richiamato, svela l’ampia portata dell’architettura d’avanguardia e di giustizia poetica sviluppata da Ripetti-Pacchini. Poesia-Phoenix, la plaquette di questo 2023, è invece una fuggente navicella che si stacca come un frammento dall’astronave madre per correr più veloci acque e, come la navicella dell’ingegno di Dante che alza le vele nel primo canto del Purgatorio, attraversa i leopardiani interminati spazi e sovrumani silenzi, tra interiori galassie di coscienze disperse. Questo perché ormai: “Rasoterra è il nostro cielo/ più alto e all’idea di/ guardarlo… all’idea di toccarlo/ già ci perdiamo…” (corsivo mio). E anche Orfeo sotto quel cielo “vaga col suo canto fioco/ barcolla con la sua lira poggiato un po’ di sbieco/ ubriaco… di Aldilà…”.

Dalla sua discesa agli inferi, Orfeo non lo attende più neanche Euridice, la quale, invece, attende la giustizia dovutale. Giustizia per il tentato rapimento, stupro del pastore Aristeo, e morso di serpente che la sperse alla vista della vita, non all’esistenza della coscienza. Coscienza che non può cessare di attendere, perché Giustizia è iscritta nel nome stesso di Euridice: Eury-Dikē. L’etimologia è: Eury, vasto, ampio; Dikē, giustizia. Ossia: ampiamente giusta, giustissima. Eury, proprio per il suo significato di vastità, dà nome anche a Europa. Giustizia ed Europa, sono originariamente inseparabili nella nostra civiltà. Per questo la poesia, in quanto patria originariamente sempre in atto sia del mythos, sia del logos, cioè della parola, non può cessare, non può fare a meno di tendere alla giustizia. È una sua necessità, perché la primigenia forma di giustizia è proprio nel dirsi autentico della parola, non nel suo negarsi o contraddirsi. In forma di coscienza, percezione e parola, la giustizia in sé, come Euridice, come la poesia, è la vittima suprema di aggressione, avvelenamento da parte dell’ingiustizia.

L’ingiustizia – nelle molteplici forme e sembianze in cui appare e ci si abbatte contro – è proprio la più drammatica delle esperienze umane. E per lo più l’umano non riesce a trovare nessuna difesa da essa che non siano altre contro tragiche forme d’ingiustizia. A dimensione individuale, collettiva, statuale. Così che è inevitabile, quasi una maledizione destinale, l’andare del mondo fuor dei cardini. E per niente uno scherzo della sorte, per dirla con Amleto e Shakespeare, è che proprio alle grandi poete, poeti, ai veri artisti tocchi l’immane fatica di riportarlo in sesto. O per dirlo con i versi della poeta: “Non riordinerò questo universo/ né spererò nell’azzurro/ ma scenderò nell’azzurro…/ smagliatura d’intreccio o albore già smagliato…/ colore senza fondo/ più bello/ dell’umano”.

Il titolo della plaquette di Ripetti-Pacchini, Poesia-Phoenix, è preso da quello di un componimento dedicato a un altro grande poeta della sua generazione e suo fratello in poesia, Dario Bellezza. Il titolo del suo libro Morte segreta, vincitore del Premio Viareggio nel 1976, è richiamato nel primo verso: “È nella tua specie di morte… segreta/ che torni Dario nelle mie memorie”. Nello “Scordarsi… ritrovarsi”, infatti, è “come fosse l’infanzia e invece/ sempre sul punto di finire/ rinascere alla fine come la Fenice/ ogni volta tra i bidoni d’immondizia/ e le delizie.

Il tipo di opposizione, espressa qui con immondizia/delizia, ricorre in quasi tutti i componimenti di questa raccolta. Dalle prime pagine alle ultime:

infinito morso/ infinito riso;

l’antecedente mi fu conseguente;

quando appresi che io/ non ero io, non ero/ nata…/ per capire di me, decisi/ di dimenticarmi;

io dove trovavo/ la nuova domanda/ che mi sbarazzasse dalle risposte?;

tutto incanta / tutto incatena;

In estate fatalmente tornò/ con un profilo falso e vero;

tanto gentile sei/ come gentile stilla/ di nero abisso;

che i tanti tu, sono infine uno;

Seri sognatori/… intimi esecutori di mirabili in fieri;

pace/ è incrinare l’ordine/ dello stesso ordinare;

come asfalto astratto/ e tutto deserto/ o tutto splendore/ d’asfalto sfatto;

in lampeggianti bagliori di Nero…;

cherubici girovaghi/ dall’esilio esiliati;

O per la lucente caligine/… o per la santa tenebrìa/… come la festa, / nelle Ceneri;

le parole che crescono/ Verbo crescente/ decrescono nei sensi/ verba deficiunt;

del celeste male/… morire e far festa;

latte e fiele/… incantamenti amari;

Finché c’è l’infinito c’è una porta/ e resta il desiderio/ sulla soglia…;

sebbene frusta sia la soglia del dire…/ Orfeo continua a cantare… canta e muore/ muore e canta… condannato a non morire. Spiccata la testa dal collo bianco…/ con voce spirante, Orfeo ripete:/ “Eury-dike… Euridice…”;

Tempo vuoto/ benché pieno/… Dolce tempo/ benché asperrimo/… sveli la luna/ gravida di sole eterno;

noi… termini intermedi/ tra l’immensità e il vuoto;

come aculeo che dura eternamente/… che sorga come musica invisibile/ e sveli il Paradiso del frattempo.

Proprio perché “pace/ è incrinare l’ordine/ dello stesso ordinare”, ossia l’ordine come ingiustizia costituita, l’incessante ritorno del verso ripettiano sul contrasto, sull’opposizione alla giustizia, non è un semplice dire, seppure altamente lirico, ma anche attoverbo performativo, ossia parola che esegue – nello stesso suo dire istantaneo e intrinseco – ciò che dice. Nel fondo più abissale del logos, ossia nel nostro stesso sottosuolo e fondamento, ristabilisce e restituisce la giustizia misconosciuta, ma esistenzialmente, poeticamente a ogni essere dovuta e originariamente data. 
Non si possono certo esaurire in un breve articolo tutti gli aspetti – che rifulgono anche in questa sua breve raccolta – dell’intera opera di Daniela Ripetti-Pacchini, ma se abbiamo qui voluto insistere su un tema particolare è perché giustizia innanzitutto andrebbe restituita a questa grande poetessa della nostra avanguardia, i cui versi, quale eco di fondo, “tremano, / come aggrappati all’aria”. Tanto che una ragazza, un ragazzo di ieri, nelle loro “altissime/ confuse… bestemmie…”, possono ancora profeticamente avvertire in loro: “Un’epoca ci divide. / Tu, mi risplenderai dopo”. Prima di dopo, però, lei già sta splendendo e continua a farlo, semplicemente tessendo poesia non solo in forma di rosa o di cosa, ma di e con l’inseparabile Dike, Giustizia. Metricamente respirando, sussurrando: “Ora mi siedo per un po’/ in questo vecchio luogo/ a spolverare la polvere/ la polvere… e l’Oro…”. 

 Estratto dalla recensione dello scrittore e poeta Fabrizio Raccis alla raccolta di versi Poesia-Phoenix di Daniela Ripetti Pacchini

 

“[…] Poesia - Phoenix è una plaquette di poesia davvero raffinata, la poetessa sembra avere raggiunto l’apice intenso dell’eternità attraverso il verso sciolto, ripropone vecchi e nuovi testi, il suo è un linguaggio universale che trascende ogni condizione, scrive in italiano e in inglese, è capace di catturare il proprio vissuto per trafiggerlo come stelle, una per una, su questi fogli di carta che rappresentano le sue memorie. È inevitabile non venire colpiti da una tale sconfinata dolcezza... “e dovendo interrogare tutti i fantasmi/per capire di me, decisi/di dimenticarmi…

Da Roma a Praga, dall’Europa all’America, sono ancora tante le tappe poetiche che questa autrice ha attraversato durante la sua vita, per tutto questo tempo non ha mai smesso di scrivere, di vivere l’arte e la poesia sulla propria pelle, neppure quando è stata colpita da una terribile patologia che l’ha esiliata dal mondo dopo svariati ricoveri.

Sono racchiusi in questa plaquette anche i versi che ha scritto durante le prove del Romeo e Giulietta di Carmelo Bene nel 1977, a testimoniare il fervore, l’intensa dedicazione al dio del verso: 


“Nemici della pace...che profanate

queste rosse spade nel fratricidio…

È già la terza volta...Capuleti e Montecchi…

È già la terza volta…”

Ma come siamo bravi a fomentare l’odio

vanità è l’unica reale

fittizio macinino che logora i giorni

bella vanità è starsene fra i sogni

e amare la realtà nella misura in cui...s’en va [...]”


(Versi iniziali di Evanescenze dalla raccolta Poesia-Phoenix, Daniela Ripetti Pacchini)

 

Per apprezzare al meglio la poetica di Daniela Ripetti Pacchini dobbiamo leggerla con attenzione, dobbiamo osservarla facendo qualche passo indietro, da lontano, come per ammirare un meraviglioso paesaggio, una di quelle lande poderose e sconfinate che tolgono il respiro. È così che si apprezza l’incanto, osservando attentamente ogni minimo dettaglio con una visione molto più ampia.

Le sue poesie richiamano a un tormento che diviene innovazione, sacrificio, la medicina dell’anima che goccia dopo goccia scava nell’interminabile scandire delle ore: “Non ergete lapidi a Orfeo.../intona il poeta/sebbene frusta sia la soglia del dire.../Orfeo continua a cantare...canta e muore, /muore e canta.../condannato a non morire.

Si possono apprezzare i richiami a poeti come Rainer Maria RilkeDylan ThomasWilliam Shakespeare, e ancora al simbolismo, a una spiritualità moderna che non punta alle attenzioni della massa, all’assoluzione, che non bada ad ammaestrare il pubblico di lettori, da molto tempo la poetessa ha intrapreso la via di salvezza più mistica, ha sconfitto la tragedia e riflette sul mondo estetico e filosofico passando da Schopenhauer a Nietzsche, sgretolando le barriere di ogni classicismo ed elevando le sue liriche ad un qualcosa di più grande di noi.

 LA VITA È IRREPARABILE

 

La vita è irreparabile

questo dolore è irreparabile

solo,

senza scampo di morte.

Io e te, Emily,

oggi prendiamo un tè

raccontiamoci le cose

da vecchie amiche…

dimmi una parola audace ridente

fammi giocare,

noi...termini intermedi

tra l’immensità e il vuoto,

piccole cose da poco

stelle già svanite

e nessuno che inveri la storia

di quel flebile istante

dove la vita ritorna a vivere.

Venga il male fisico

la vertigine del dolore

che mi distragga dal dolore peggiore:

quello irreparabile

di vivere.

 

(Poesia dalla raccolta Poesia - Phoenix, Daniela Ripetti Pacchini)

La scrittura di questa poetessa trasuda verità, riesce a smuovere e dinamizzare le parole che non restano incollate al foglio, si sfilacciano a grappoli e, ogni acino sinteticamente, ci racconta il respiro del corpo.

Nella sua poesia BIG PICACHO è racchiuso il richiamo a terre lontane, a popoli che sono stati tremendamente perseguitati come le tribù Apache in Arizona, memorie ritrovate che si mantengono in vita in versi toccanti come le lacrime di quelle donne indiane segnate dal grande dolore. E anche in APACHE TEAR ci racconta di quanto è difficile camminare nel bordo di questo abisso scivoloso e tondo, di quanto è forte il desiderio di rinascere, di tornare nuova al mondo…

In conclusione, mi sento molto legato a questo genere di scrittura, alla meditazione poetica che partorisce speranza, c’è un bisogno crescente di purezza al giorno d’oggi, non dobbiamo mai smettere di cibarci di poeti assoluti come Daniela Ripetti Pacchini, poeti che sono in grado di richiamare qualcosa di estremamente intimo, di far vibrare l’animo umano attraverso le proprie idee. Leggete Poesia – Phoenix, condividete questa nuova plaquette di versi, affrontate la vita con la stessa caparbietà di questa poetessa speciale.

IMPROVVISO

...l’antecedente mi fu

conseguente

e la catena leggendaria

di ombre che mi erano appartenute

naufragò

come una vecchia gomena…

tutto passò

in repentino cambiamento

davanti ai miei occhi

quando appresi che io

non ero io, non ero

nata

e dovendo interrogare tutti i fantasmi

per capire di me, decisi

di dimenticarmi.

(Poesia dalla raccolta Poesia-Phoenix, Daniela Ripetti Pacchini)”

Fabrizio Raccis, gennaio 2023 

Estratto dalla recensione di Riccardo Tavani su “Stampa Critica” al libro Addio Roma e altre poesie (30 dicembre 2024)

"Della poeta Daniela Ripetti-Pacchini abbiamo recensito nel tempo diverse raccolte di versi. E anche un libro di storia contemporanea fondamentale: Una giovinezza rubata, Memorie di Guerra Fredda, Book&Company, 2019.  […] Ora una sua nuova plaquette di poesie è apparsa nelle vetrine, tra gli scaffali reali delle librerie e in quelli virtuali delle vendite on-line. Uscito per Transeuropa Edizioni, prende il titolo di Addio Roma e altre poesie. La collana in cui l’editore presenta questa sua uscita si chiama Nuova Poetica. E viene subito da domandarsi: “Qual è la relazione tra l’opera di Daniela Ripetti-Pacchini e l’espressione, il concetto di Nuova Poetica?”

[…] La poesia precocemente, fin dalla sua adolescenza a Pisa, dove è nata, si manifesta in lei come una naturale forma espressiva e si sviluppa poi quale forma di resistenza, lotta, contro il tentativo di schiacciarle la mente e i sentimenti. Forma oppositiva che si delinea, però, non sul piano dell’urlo meramente contenutistico, ma su quello di un’inedita tessitura linguistica 
[...] Ma la sua in quegli anni era nuova poetica, ossia d’avanguardia, o quanto meno così veniva considerata? E a rileggerla oggi come appare?  

Il tempo ritrovato, l’ultimo libro della sterminata Recherche proustiana, contiene un passo ben noto e caro all’autrice: “Se il ricordo, grazie all’oblio, non ha potuto contrarre nessun legame, gettare nessun ponte tra sé e il momento presente: se è rimasto nel suo proprio luogo, alla sua propria data, se ha conservato le distanze, il suo isolamento nella profondità d’una valle o sulla vetta d’una montagna…”. Tale irrimediabile separatezza, scissione tra gli eventi in cui Marcel Proust s’imbatte alla ricerca nel tempo perduto, sono tutti quei folgoranti frammenti che improvvisamente riaffiorano dal passato e ci riportano alle labbra il lontano sapore di una madeleine inzuppata nel tè.

Questo, però, non avviene nell’opera poetica di Daniela Ripetti-Pacchini, perché lei stratifica i suoi versi non solo e non tanto di citazioni, ma di veri e propri echi linguistici di tutta la storia e la prassi letteraria non unicamente italiana, ma di tutto il mondo. Echi anche iconografici di quadri, inquadrature cinematografiche, e suoni, brani musicali.

Prosegue il brano di Proust “… esso ci fa di colpo respirare un’aria nuova, – nuova proprio perché è un’aria che s’è già respirata in passato, – quell’aria più pura che invano i poeti hanno tentato di far regnare in Paradiso, e che non potrebbe darci questa sensazione profonda di rinnovellamento se non fosse già stata respirata, perché i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduti”. 

Ecco, nella versificazione di Ripetti-Pacchini, questo colpo di respiro, d’aria anticamente nuova, è intessuto ab origine, sia nella lingua, sia nella metrica, nel ritmo musicale libero che lei scandisce. Per questo l’avanguardia nella sua opera non ha bisogno del tempo per diventare classicità, come avviene costantemente nella storia dell’arte. Mai la dizione Nuova Poetica, ossia il nome la collana editoriale che ospita questa sua raccolta di versi, ha così profondamente corrisposto alle forme e ai contenuti della sintesi poetico-esistenziale che graficamente riveste. Sintesi, infatti, che risuona ancora oggi d’avanguardia, perché essa non va alla ricerca, ma reca dentro di sé la gioia, la gloria della novità autentica, della novella nell’annuncio a ogni verso del paradiso ritrovato […]”

La poetessa, scrittrice e saggista Gabriella Sica commentando Addio Roma e altre poesie scrive:


“Vedo che il periodo romano è il tuo totem archetipico e cronologico a cui ritorni con consueta delicatezza che vela il fondo oscuro e nostalgico.

Questo è il tuo congedo da Roma e l’approdo a un altro tempo.

Bello che tu ricordi come disegnando acquarelli e colorando tinte sfumate.”

 

E il poeta e artista multimediale Gerard Malanga a cui inviai (prima di darle a Transeuropa) diverse poesie della raccolta Addio Roma da me tradotte in inglese, per vedere se funzionavano anche in quella lingua, commenta così:

 “I am thoroughly surprised! These are your best poems of anything I have encountered in close memory to anyone else’s work in Italian of your compatriots. The poem “Goodbye Rome” is a gem of linguistic. No need to doubt the translation here… They are all good and they work.”